Ecco perché Luis Enrique doveva restare
Luis Enrique ha lasciato la Roma congedandosi con un discorso a staff tecnico e squadra, durante il quale si è assunto la completa responsabilità per questo fallimento. I risultati non sono di certo stati dalla parte del tecnico asturiano, ma esistono alcuni aspetti che valgono la pena di essere sottolineati. L'addio di Luis Enrique, auspicato da più fronti, è ormai realtà, ma è giusto analizzare i motivi per cui il mister avrebbe potuto confermare la propria guida tecnica alla Roma.
NUOVO CORSO - Sbagliato chiamarlo progetto, giusto chiamarlo idea. Sin dalle prime dichiarazioni, la nuova società ha sempre affermato che il nuovo corso “richiede tempo”, come detto da Thomas DiBenedetto durante la sua prima vera conferenza stampa da nuovo proprietario. Roma non è stata costruita in un giorno, nemmeno in una stagione: tanti meccanismi da oliare, tanti aspetti da ricostruire, sia dal punto di vista societario, ma anche da quello tecnico.
L’ETICA - “Abbiamo scelto Luis Enrique perché crediamo nella sua filosofia di gioco (...) non solo per lo stile, ma per l'atteggiamento da tenere dentro e fuori dal campo”. Queste le parole del nuovo presidente della Roma a pochi giorni dall’ufficializzazione del tecnico giallorosso. L’atteggiamento da tenere è stato un altro punto cardine di Luis Enrique: Osvaldo e De Rossi tenuti lontani dal campo per motivi disciplinari e il mancato ricorso alla squalifica inflitta a Lamela hanno condizionato alcune partite, destando parecchie critiche da parte di media e tifosi, ma hanno contribuito a sviluppare una cultura in cui i dirigenti e la società credono molto. Altro aspetto rilevante è stata la scelta di non commentare mai le decisioni arbitrali. Non alimentare le polemiche e mantenere un atteggiamento coerente sono state due caratteristiche ritenute basilari dalla nuova dirigenza, il cui atteggiamento di Luis Enrique in merito ne è l’esatta espressione.
NESSUNA DIFFERENZA - I giocatori hanno dovuto mostrare il loro impegno in allenamento e poco cambiava se avessero 19 o 30 anni, se fossero alla prima esperienza o se fossero senatori: la maglia da titolare è stata assegnata solo se meritata durante la settimana di preparazione alla gara. Una regola, questa, che poteva avere effetti collaterali ma da cui non si poteva sfuggire. Una regola introdotta (e rispettata) da Luis Enrique che spesso ha dato adito a critiche - ovviamente conseguenti alle sconfitte - ma che rientrava pienamente all'interno del percorso culturale e formativo ritenuto basilare per la crescita sul campo.
IL CARATTERE - Sin dalle prime conferenze stampa, Luis Enrique ha mostrato un temperamento deciso, tenace e non ha mai scaricato le colpe di una stagione per tanti aspetti negativa a qualcuno che non fosse egli stesso. Ai giocatori e alla società non sono mai stati pubblicamente imputati errori, fino alla fine. Atteggiamento inconsueto dato che, velatamente o meno, il panorama italiano ha spesso visto capri espiatori in ogni città.
IL GIOCO - Croce e delizia di questo primo anno di revolución, il gioco è stato l’elemento meno costante della stagione. Incentrato sulla proposta offensiva, il modulo prevedeva che fossero i terzini a sostenere il centrocampo e l’attacco, con il regista basso che supportasse la difesa in fase di copertura. A tratti il gioco voluto da Luis Enrique si è visto, molto poco rispetto alle aspettative, ma quel tanto che bastava per capire l’estrema necessità di avere giocatori al massimo della forma, sia fisica che mentale. Il possesso palla su cui si centrava tutta la struttura richiedeva infatti prestazioni sempre ottimali, senza sbavature e quindi con giocatori che sposassero estro e capacità tecniche, qualità non sempre presenti nell’anno in corso.
FIDUCIA - Non era mai successo prima: tutte le persone che hanno avuto a che fare con il mister sono state dalla sua parte e lo avrebbero voluto fortemente sulla panchina giallorossa il prossimo anno. Baldini, Sabatini, Totti, De Rossi e tutti i giocatori non avevano dubbi: bisognava ripartire da lui. E poco importa se qualcuno sostiene che fossero parole di circostanza o - ancora peggio - che sia stata mancata ammissione dei propri errori: negli anni, nessuno ha mai difeso così fermamente un tecnico a Roma, soprattutto quando i risultati negativi si sono susseguiti.
I NUOVI ARRIVI - Nelle due finestre di mercato della nuova Roma sono arrivati nella capitale ben undici giocatori per la prima squadra. Appena due di loro hanno un’età superiore ai 25 anni (Stekelenburg ed Heinze), otto non hanno mai giocato in Italia ed uno, Borini, era alla sua prima vera esperienza da titolare in un club di Serie A. La ragione di questo, ribadita più e più volte, era la necessità fisica di diminuire l’età della rosa in vista del futuro, con giocatori da formare e i quali avrebbero reso al massimo dopo un periodo di necessario ambientamento. Alcuni di loro lo hanno fatto, altri richiedono un tempo maggiore ma non per questo sono da considerarsi tecnicamente meno validi dei primi. Da non dimenticare, infine, che tra i nuovi arrivati solo in tre hanno svolto parte del ritiro estivo assieme al resto della squadra: José Angel, arrivato cinque giorni dopo l’inizio, Heinze e Bojan la settimana successiva. Tutti gli altri si sono aggregati alla squadra a campionato praticamente iniziato, gli stessi che poi sono stati maggiormente utilizzati nel corso della stagione: Pjanic, Stekelenburg, Gago, Osvaldo, Lamela, Kjaer, Borini e, ovviamente, Marquinho giunto a gennaio.
ASSENZE - Non è un alibi, ma è una realtà. La difesa è stata il tallone d’Achille di questa stagione e la situazione diventa ancora più complicata se, a poche settimane dall’inizio del campionato, il difensore con maggiore esperienza e carattere subisce un infortunio che lo terrà fuori dal campo fino alla fine della stagione. Con Burdisso la Roma ha perso un perno del reparto arretrato, un leader che ha sempre mostrato carisma e tenacia. Dopo di lui, anche Juan è stato costretto ad allontanarsi dai campi, proprio nel momento in cui si tentava di lottare per il terzo posto. Nel corso della stagione, poi, si è registrata l’assenza di Osvaldo al culmine delle proprie prestazioni, quella di Borini infortunatosi all’andata contro il Milan e quelle di Stekelenburg, tra gli altri.
GLI AVVERSARI - Qualsiasi squadra che abbia affrontato la Roma, soprattutto nella prima parte della stagione, si è complimentata davanti alle telecamere per il gioco espresso dalla compagine giallorossa. Un esempio? Le parole di Di Vaio al termine della gara di Bologna del 21 dicembre scorso: “E’ una squadra che mi ha impressionato. Poche volte in carriera mi è capitata una cosa del genere”.
IL PASSATO - I numeri parlano chiaro e da loro non si sfugge. E’ vero che la Roma è fuori da una qualsiasi competizione europea dopo tanti anni, è vero anche che ha preso troppi scivoloni contro squadre ritenute decisamente abbordabili (Lecce, Fiorentina, Atalanta, Lazio, Cagliari), ma è altrettanto veritiero affermare che - come ha detto recentemente anche Francesco Totti - non tutti gli allenatori hanno fatto così bene alla loro prima esperienza in Serie A, una volta arrivati a Roma. Capello e Spalletti nel loro primo anno nella capitale sono arrivati rispettivamente al sesto e al quinto posto (senza considerare le sentenze di Calciopoli, NdR), mentre nella stagione successiva hanno l’uno vinto il campionato e l’altro ottenuto due secondi posti consecutivi. Guardando più indietro con gli anni, invece, Liedholm ha guadagnato il titolo di Campione d’Italia solo nel secondo ciclo della sua permanenza e alla sua quarta stagione consecutiva in giallorosso, mentre Schaffer - negli anni Quaranta - ottenne la vetta dopo tre campionati. Proprio quest'ultimo, inoltre, nella prima intera stagione in cui allenò la Roma (subentrò a Guido Ara nel maggio del 1940), ottenne una media punti pari ad 1,26. Tempi diversi, senza ombra di dubbio, ma se i contesti non sono considerati allo stato attuale delle cose, tanto vale non farlo nemmeno per il passato.