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Né singoli, né collettivo: il disastro giallorosso è tutto sul campo

di Gabriele Chiocchio
Fonte: L'editoriale di Gabriele Chiocchio

Che la Roma non avesse tutta questa voglia di giocare nel gelo norvegese contro il Bodø/Glimt non era una possibile intuizione, ma un’evidenza: le parole “rubate” ad alcuni calciatori nel video pubblicato da Mourinho ieri sera e lo stesso atteggiamento del mister in conferenza stampa erano una prova sufficiente del fatto che di stimoli proprio non ce ne fossero. Ma quante volte un girone europeo diverso da quelli di Champions League ha offerto appuntamenti non certo di prestigio, ma nei quali portare comunque a termine la missione, qualsiasi essa fosse e con qualsiasi livello di sforzo da profondere? In passato la Roma ha giocato su campi sperduti almeno quanto lo stadio Aspmyra di Bodø, qualche volta ci ha anche lasciato le penne ma poche volte è caduta in modo fragoroso e mai - letteralmente - come quest’oggi.

E che la Conference League sia un modo per far giocare le riserve - anche perché non c’è ciclo tecnico in cui in modo più evidente c’è una suddivisione tra titolari e comprimari - è altrettanto un fatto acclarato e non è sbagliato, perché la stagione è lunga, perché si gioca di giovedì e poi di nuovo la domenica, perché gli avversari sono quelli che sono e per una serie di altri “perché” detti e ridetti da anni di gironi di Europa League di livello non tanto diverso da quello che la Roma sta affrontando nella neonata competizione europea. Un anno fa in autunno il turnover fu massiccio come quello di oggi, eppure i giallorossi portarono a casa la qualificazione senza alcun inciampo e solo con un piccolo rallentamento.

E allora, com’è possibile che il periodico rovescio europeo della Roma stavolta non capiti contro un gigante Manchester United, Bayern Monaco o Barcellona, ma contro i modesti campioni di Norvegia? Da queste parti siamo abituati a invocare entità sovrannaturali, presunti DNA perdenti e altri elementi del tutto irrazionali, ma la risposta è semplicemente sul campo. Fino a oggi, la Roma di Mourinho non ha mostrato di avere uno spartito tattico da eseguire, è stato detto tante volte: molta energia, molta presenza, poche idee codificate per arrivare in porta o per gestire il pallone.

Avere un piano ben preciso significa poterlo applicare sia con i migliori undici che con quelli che vengono dietro, come accaduto un anno fa; non averlo significa dover puntare alla somma della prestazione dei singoli, che deve essere sempre - o quantomeno il più possibile - vicino al massimo. Ma come si può pretendere la somma di prestazioni massime di un gruppo di giocatori pubblicamente ridotti a tappabuchi per permettere agli altri di riposare? Senza collettivo e senza singoli la figuraccia è dietro l’angolo e la Roma l’angolo lo ha girato.

Nel postpartita, Mourinho ha provato a girare la situazione in suo favore, prendendosi apparentemente la responsabilità, ma di fatto scaricandola sui suoi giocatori, definiti di minor qualità complessiva rispetto a quelli del Bodø/Glimt (non del Manchester United, non del Barcellona, non del Bayern Monaco). Che la Roma abbia una rosa corta è vero, era vero anche nella scorsa stagione, quando arrivò con la lingua di fuori nella seconda parte dell’annata dopo la scelta di condurre al massimo l’Europa League e mollando il campionato; ma è un punto a cui si arriva dopo aver tentato in ogni modo di gestire le forze a disposizione, di strizzare ogni goccia di energia e qualità dal gruppo che si allena.

Questo - evidentemente - non sta accadendo, e la fortuna della Roma è che si è ancora ampiamente in tempo a cambiare strada: si può vincere il girone di Conference League - e saltare due partite a febbraio, fatto di importanza capitale - anche con la macchia del 6-1 di quest’oggi e domenica contro il Napoli saranno i titolari, imprevisti permettendo, a scendere in campo, per cui quanto accaduto in Norvegia avrà (o, quantomeno, dovrà avere) poca influenza. La scelta è tra provare a farlo oppure attendere il mercato, magari facendo presenti le proprie richieste al ritmo di una volta ogni tre giorni, per provare ad arricchire il parco “titolari” e a svuotare quello “riserve”: la storia di Mourinho, però, è sempre andata in una direzione precisa.


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