Florenzi: "La semifinale di Champions è stata la più grande soddisfazione, ma anche un grande rimpianto"
Alessandro Florenzi ha rilasciato una lunga intervista a Radio TV Serie A parlando della sua carriera. Ecco le sue parole:
Sugli inizi e sulla scelta tra Roma e Lazio.
«Fino a 9 anni ho giocato nel campo di calcio di un centro sportivo dove mia mamma aveva il bar, i giorni in cui avevo allenamento mi allenavo e i giorni in cui non lo avevo facevo lo stesso. C’erano due container, gli spogliatoi, e dietro uno spazio di terra, l’unico spazio vuoto dove si poteva giocare oltre ai campi. Lì è dove affinavo la tecnica sette ore al giorno. I mister della mia infanzia, Maurizio Ceccarelli e Roberto Spanò, non li potrò mai dimenticare. Dopo sono stato due anni alla Lodigiani, la terza squadra di Roma, e poi a 11 anni ho dovuto scegliere. Avevo Roma e Lazio che volevano che entrassi nella loro Accademia: sono andato a Formello, poi ho parlato con Bruno Conti. Io ero tifoso della Roma, ma ha influito fino a un certo punto: quando ho parlato con Bruno Conti c’è stato un effetto calamita, ho visto Trigoria… Mamma e papà mi avevano lasciato libero di scegliere, ma per me era già presa: volevo iniziare un percorso alla Roma, che da 11 anni è durato fino a 29-30 salvo il passaggio per il Crotone. Era il 2012, faccio l’esordio in Serie A a 21 anni e poi decidiamo di farmi fare un anno a Crotone in Serie B. Poi 8 anni con la Roma, Valencia, Psg e Milan».
La più grande soddisfazione con la Roma?
«Sicuramente la semifinale di Champions League. Ed è stata una partita molto discussa, il VAR non c’era… perdiamo 5-2 ad Anfield l’andata, al ritorno siamo 2-2 quando manca mezz’ora e Alexander Arnold fa una parata di mano con palla già entrata. Era rigore ed espulsione, con mezz’ora da giocare. Venivamo dalla rimonta contro il Barcellona e con l’apporto di quel pubblico poteva veramente succedere di tutto. Quello è il più grande raggiungimento ma anche uno dei rimpianti che ho, una delle più grandi gioie… chissà come ne sarebbe potuta andare».
Come nasce il soprannome Spizzi?
«Da mio fratello, più grande di 11 anni. Si divertiva a dare dei nomi a caso, s’inventa il nome Spizzingrillo. E non per me… A me piaceva e piace tutt’ora giocare con la play-station, lì devi mettere un nome in cui ti devi identificare e ho deciso di usarlo. Al Milan arriva il boom e lo accorciano, chiamandomi Spizzi. Nell’anno dello scudetto io giocavo terzino destro, ma davanti a me c’era Saelemaekers: Ale e Alex… Pioli quando diceva "Ale" ci giravamo entrambi, quindi doveva trovare una soluzione e mi chiamavano Spizzi».
Sulla sua duttilità.
«Nella mia carriera ho sempre detto che dall’1 all’11 vanno tutti bene, basta che gioco. Questa cosa nasce addirittura a Crotone: arrivò lì da centrocampista, ma in una partita di Coppa Italia ad agosto ci troviamo senza terzini destri e Menichini mi ci mette. Io ero appena arrivato, mi chiese se me la sentissi: io non avevo nulla da perdere. Vinciamo a Lecce 2-0 e io faccio l’assist sul primo gol, da terzino destro. Tornano i due terzini, io comincio a giocare da centrocampista o anche seconda punta: alla fine faccio 11 gol e non so quanti assist, qualcosa di magico. Torno a Roma, faccio l’anno con Zeman da centrocampista e poi arriva Garcia. Mi spiega quello che per lui è il terzino destro, che doveva stare molto alto: io dico proviamoci. Lo scotto da pagare era ovviamente sentire gli altri dire che fisicamente non ero così prestante, ma il nostro gioco richiedeva che avessimo tanto possesso palla quindi in teoria dovevamo subire poco. Quell’anno andò bene e intrapresi la stagione da terzino e da alto a destra: tante volte infatti giocava Maicon basso e io alto, altre volte giocavo io terzino. Essere un jolly è diventata anche una mia dota, che a volte può essere anche un cruccio».
Che emozione e che responsabilità è stata quella di indossare la fascia di capitano della Roma?
«È stata una grande responsabilità, essere capitano della squadra che tifi ha ancora più valore. Soprattutto farlo a Roma, dove davanti a me c’erano stati De Rossi e Totti. Avere la responsabilità di essere alla loro altezza… nessuno potrà mai essere come loro. Totti e De Rossi non c’erano più, io ero quello più longevo in squadra: inizio a fare il capitano con Garcia, da terzo, poi con Di Francesco».
Come è stato giocare con Totti e De Rossi?
«Incredibile. Io faccio l’esordio in Serie A subentrando a Totti. Quando mi chiedono che cosa ricordo dell’esordio mi viene sempre da ridere, l’unica cosa che ricordo è stato fare il cambio a Totti. Poi sono stato tre minuti a correre, senza prendere mai la palla. Sono due leggende del calcio italiano, due leggende per Roma a cui nessuno potrà mai dire niente, due amici».
Il suo gol più bello?
«Sicuramente quello in Roma-Barcellona in Champions, recupero una palla nella nostra trequarti e superato il centrocampo vedo Ter Stegen fuori dai pali. Tiro, volutamente, e alla fine pareggiamo 1-1».
Quale è l’allenatore che ha avuto un maggiore impatto su di lei?
«Ne potrei citare svariati. Non in ordine di importanza: Spalletti, Conte, Pioli, Tuchel, Garcia. E sicuramente sto dimenticando qualcuno. In mezzo a questi, però, non dimentico da dove vengo: per arrivare a questi sono passato da Alberto De Rossi, colui che mi ha formato nei tre anni di Primavera e che mi ha insegnato cos’è il calcio, come ci si comporta in determinate situazioni. Mi ha fatto diventare professionista, assolutamente, e quando lo incontro ho sempre bei ricordi per lui. L’ho incontrato poco tempo fa, avevo promesso a Daniele che sarei andato a vedere una partita dell’Ostiamare senza immaginare che avrei incontrato anche Alberto».
Ci racconta l’abbraccio alla nonna nel 2014?
«È una storia che parte prima. Ho avuto la fortuna di godere a pieno di tre dei quattro nonni. Nel 2014 ne era rimasta solo una, e non era mai andata allo stadio. Avevamo organizzato tutto per farla camminare il meno possibile, aveva 85 anni. E le prometto che sarei andato se avessi segnato. Quella partita faccio gol e parto, vado ad abbracciarla. Mi sento di dire che quell’abbraccio era sì per lei ma era per quello che per me avevano rappresentato tutti e quattro. Poi rientro in campo e l’arbitro mi ammonisce, era il ventesimo del primo tempo. Lì arriva De Rossi, mi guarda e mi fa "Bellissimo eh, ma se adesso prendi un altro giallo e ti buttano fuori io ti ammazzo". Non è capitato, ma la ricorderò sempre come una cosa bellissima che mi è successa”.