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Mourinho a Federico Buffa Talks: "La Champions con il Porto mi ha aperto le porte del mondo. I giocatori che lavorano con me sanno che sono onesto, così si crea empatia"

di Marco Rossi Mercanti

José Mourinho, tecnico della Roma, è stato protagonista di un’intervista con Federico Buffa e Federico Ferri su Sky Sport nel programma speciale Federico Buffa Talks. Ecco le dichiarazioni dell’allenatore nella prima parte dell’incontro:

Da dove partiresti per raccontare la tua storia?
“Non partirei. Pensi che sia una storia interessante? La mia storia è la mia vita, l’ho vissuta fino ad oggi e per me è normale, niente di straordinario. Magari da fuori avete un’altra percezione, per me è normale”.

Hai iniziato insegnando ai disabili a Setubal.
“Ero in difficoltà in quel periodo lì, avevo una laurea in Scienze Motorie. Dopo tre anni, ognuno di noi sceglieva il proprio futuro. In quegli anni, sono stato ovviamente nel calcio, nei campi di allenamento e lavoravo con bambini con Sindrome di Down. Non ero all’altezza della dimensione di quel lavoro lì, mi ha salvato il rapporto che ho creato con quei ragazzi lì, avevano tra i 12 e i 17 anni, io ne avevo 24 e mi guardavano come uno di loro. Sono riuscito a fare calcio per loro e creare con quella squadra un rapporto umano. Non sono io diciamo il genio di quella fase, ma un mio professore universitario che mi diceva che io sarei stato allenatore di giocatori che giocano a calcio. Tornando a quel periodo lì con la scuola di educazione speciale, quella è stata la mia salvezza. Sono stati due anni straordinari per me”.

Cosa ti ha lasciato quel periodo?
“Amici, non tutti ma quando torno a Setubal qualcuno trovo. Questo per me è la cosa più importante”.

Cosa ti sei portato dietro da Setubal?
“Setubal (ride, ndr). Sono stato un ragazzo veramente felice, fortunato e felice. Fortunato per gli amici, felice per la famiglia. Tutto quello che io ricordo di Setubal, ogni giorno che sono andato via, però quei 26 anni che sono stato a Setubal tutti i ricordi sono assolutamente fantastici. Per me è un periodo di libertà, una generazione che penso che non dobbiamo avere alcuna invidia delle nuove generazione. Abbiamo vissuto in maniera speciale, a Setubal non sono neanche José quando torno, quando torno sono Zé con una zeta e una è. Vado in giro con giacca, pantalone corto, con una t-shirt bruttissima, la gente mi saluta senza fermarmi, mi chiedono come sto perché è casa mia. Posso avere casa a Londra, a Roma, posso aver girato il mondo ma come famiglia siamo stati fortunati. Abbiamo vissuto a Londra, Madrid, Milano, Roma, abbiamo avuto una vita importante. Setubal, però, è Setubal, non abbiamo la Fontana di Trevi ma abbiamo un’altra fontana che, se bevi dell’acqua da lì, sarai fortunato tutta la vita. E io l’ho bevuta”.

Quando il calcio è entrato dentro casa tua?
“Tre ore dopo che sono nato. Mio padre aveva la partita alle 15:00, io sono nato tre ore prima. Alle 10:00 del mattino, mio padre aveva lasciato l’albergo per vedere il suo secondo figlio quindi il calcio è entrato subito dentro di me”.

Tuo padre?
“Sono orgoglioso di quello che ha fatto come calciatore e come allenatore, mi ha fatto essere un bambino super orgoglioso, penso all’uomo che sia stato. Non voglio parlarne troppo perché mi commuoverei troppo”.

Che ricordi hai del calcio in Portogallo?
“Quando hai una famiglia che vive nel calcio e quando hai un padre che ha giocato solo per due club, magari la gente non capisce ma se il calcio diventa la nostra vita il calcio non è uno scherzo. Quando è così, tu cresci con questa mentalità, mi ha aiutato a guardare la mia professione in altra maniera”.

Com’eri da calciatore?
“Ero più bravo di quello che poteva pensare la gente, però sono arrivato tra Serie B e Serie C, in Serie C ero di altissimo livello. Ho scelto di allenare e ho fatto una scelta consapevole del fatto che come calciatore avevo fatto il massimo. Quando ho vinto per la prima volta, il calcio diventa una cosa diversa. Il calcio è una passione e mi diverto ancora con il calcio, faccio la mia professione con la maggior serietà possibile”.

Il ritorno in Portogallo?
“A Barcellona ho lavorato con Hodgson e van Gaal, quest’ultimo mi ha detto che avrebbe allenato la sua nazionale e mi aveva consigliato di restare o iniziare una carriera da solo. Van Gaal era uno molto educativo, l’esperienza di allenare i migliori giocatori del mondo in quel momento era importante ed educativo per un giovane assistente come ero io. Ringrazierò sempre van Gaal”.

Hai sempre pensato di poter diventare primo allenatore?
“Quando van Gaal lascia Barcellona, io sono rimasto con il nuovo allenatore e con il nuovo presidente che mi ha chiesto di aiutare il nuovo tecnico. Non era la mia spiaggia, non mi sentivo bene. Ho fatto il ritiro precampionato con loro, poi arrivo a casa ad agosto e dico a Matilde (la moglie, ndr) che non ero felice. Non è più la mia gente, però ho un contratto fantastico perché il mio contratto come assistente era fantastico. Avevo una bambina di 3 anni e un bambino di 4-5 mesi, ho avuto bisogno di fissare quello che avrei voluto fare. Se sei consapevole del tuo potenziale, allora andiamo a casa. Moglie e figli sono andati in aereo, io sono andato in macchina che è ancora lì tra l’altro, le sono molto affezionato, è una Volvo”.

La tua prima avventura in Portogallo?
“Ero terzo a gennaio, poi sono andato subito al Porto perché è possibile cambiare subito panchina in corsa e a gennaio sono andato al Porto. Pochi mesi dopo, gioco la finale del Portogallo proprio contro il Leiria che avevo appena lasciato. È stata una finale drammatica dal punto di vista emotivo, conoscevo troppo di quella squadra lì, non ho nemmeno festeggiato quando abbiamo vinto perché grazie a loro sono arrivato al Porto. Ho portato poi tre di loro con me, il Leiria era la mia gente ed è stata molto dura per me”.

La finale di Supercoppa Europea contro il Milan?
“Mentalmente, è stata una partita super importante per noi. Venivamo dalla vittoria in Coppa UEFA con gol di Derlei al 120’, la vinciamo e giochiamo la Supercoppa a Montecarlo ad agosto e a settembre inizia la Champions League. Eravamo una squadra di bambini, io ero un bambino a quel livello lì, a parte Vitor Baia non avevamo giocatori di esperienza. Avevamo tutti un punto interrogativo: cosa avremmo potuto fare in Champions? Nel girone abbiamo pescato il Real Madrid di Figo, Zidane, Ronaldo, Raul, Roberto Carlos. A Montecarlo abbiamo giocato contro il Milan di Ancelotti, c’erano Shevchenko, Rivaldo, Maldini e per noi perdere 1-0 e giocare come abbiamo fatto è stato di un’importanza clamorosa. Sembravamo ragazzi persi nella giungla dopo i primi 30’, non ricordo cosa ho detto loro all’intervallo ma alla fine abbiamo parlato nello spogliatoio e invece di essere tristi abbiamo pensato che ci saremmo diverti in Champions League con Real Madrid e Marsiglia. E così è stato”.

La vittoria in Champions con il Porto è la tua più grande impresa?
“Sono sempre accusato di essere poco umile, devo dare ragione a chi lo dice. Ho fatto tante imprese, ma vincere la Champions League con il Porto è una super impresa con nove giocatori portoghesi che hanno giocato la finale di Champions League, sette ragazzi un anno prima non avevano nessuna partita in Champions League. Ma ci sono altre imprese perché se ho avuto la fortuna di lavorare con squadre con grandi budget, ho avuto la difficoltà di lavorare in squadre dove vincere è miracolo. Ho vinto con quel Manchester United, ho vinto una coppa e mezza con la Roma, non sono stato capace di vincere due coppe a Roma ma ne ho vinta una e mezza e ho altri sei mesi qui. Quella con il Porto è un’impresa che mi ha aperto le porte del mondo”.

Il gol di Costinha al Manchester United?
“Avevo un ragazzo in panchina che era uno specialista sulle punizioni, aveva un grande talento ed era Ricardo Fernandes. Noi stavamo dominando contro il Manchester United, guardavo di là e di là e vedevo solo gente spaventava, ho chiamato Ricardo e gli ho detto che la punizione, se ci fosse stata, l’avrebbe tirata lui. Arriva la punizione e Benny McCarthy tira la punizione al posto di Ricardo Fernandes, quando guarda Costinha alla seconda palla e non in barriera mi sono arrabbiato, ma abbiamo segnato. Lì si è aperta la porta per me e sono andato a esultare con i miei giocatori. Qualche giorno dopo c’erano Chelsea e Liverpool, dopo la Champions con il Porto avevo deciso che sarei andato in Inghilterra”.

La vittoria del campionato con il Chelsea?
“È stata un’impresa perché in Inghilterra tutti hanno poteri economici. Al Chelsea quando sono arrivato c’erano già stati investimenti, Abrahamovic era lì da due anni ma mancava l’ultimo passo, c’era stato Ranieri prima di me. Non mancava tanto per vincere, c’era il potenziale per cambiare la cultura e per decidere quali calciatori avere e non è una cosa che accade spesso. Abbiamo costruito una squadra da sogno con due Premier League di fila, abbiamo vinto tre coppe e quando sono andato via la stessa squadra, con qualche investimento in più, ha continuato a fare la storia”.

Come entri nella testa dei giocatori per ottenere il massimo?
“Ricordo sempre il mio professore, loro non sono calciatori ma uomini che giocano a calcio. Devi imparare tutto ciò che vuoi su di loro, come interagire e avere feedback continui con loro. Ci sono cose che a livello umano tu devi riuscire ad andare più lontano. Non c’è un segreto per arrivare lì, devi essere te stesso ed essere empatico con la gente che lavora con me. Essere empatico significa essere critico, esigente, aperto, essere onesto. Il giocatore quando lavora con me capisce che sono onesto e dentro l’onestà esiste tutto questo, così il rapporto diventa ottimo e tu ottieni il massimo da ogni giocatore, penso che non sia un segreto”.

La vittoria a “Stamford Bridge” con l’Inter?
“Quando con l’Inter ho battuto il Chelsea nel ritorno degli ottavi di Champions League, eravamo reduci dalla vittoria anche nella gara d'andata. In quella partita, il Chelsea segna con Kalou e festeggia tanto. Dopo la gara mi viene a chiedere scusa per aver festeggiato tanto, ho detto a Salomon che non doveva scusarsi, è il gioco. Quando siamo andati a Londra, qualche giorno prima abbiamo perso a Catania, credo contro il Catania di Sinisa Mihajlovic e avevamo fatto una partita orribile ma ci ha aiutato per preparare la sfida contro il Chelsea. I ragazzi dell’Inter erano gente psicologicamente forte, era gente preparata. Quando stavamo per giocare contro il Chelsea, ho detto loro che non avevo mai perso in quello che era il mio stadio, non avevo mai perso. Mi sono fatto male per esultare, un dolore (ride, ndr)”.

La vittoria contro la Dynamo Kiev ai gironi?
“Se perdiamo siamo fuori, se pareggiamo siamo ancora vivi ma dobbiamo prendere un risultato a Barcellona. Ricordo che avevo detto che a fine partita non dovevamo piangere né stare con le mani in faccia, quello che stavamo facendo dal punto di vista ed emozionale non era niente, ho detto ai miei che saremmo tornati felici o morti di stanchezza, no morti di rimpianti e tutte queste storie qua. Abbiamo rischiato tutto, quando abbiamo segnato potevamo accontentarci del pareggio e giocarci tutto a Barcellona, ma l’inerzia era lì e quando c’è l’inerzia questa gioca una parte importantissima nel calcio. Qualche volta noi allenatori facciamo i fenomeni, ma alle volte le cose accadono perché fai in modo che accadono, hai giocatori bravi e di personalità, giocatori che tu potevi pressare ai limiti e loro ti rispondevano sempre. Se fossi rimasto altri 2-3 anni con quella squadra, avremmo vinto più di una Champions come dice sempre Materazzi”.


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