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Petrachi: "Sono arrivato a Roma con tanto entusiasmo, a un certo punto ho capito che mi stavano cacciando in modo subdolo"

di Alessandro Pau

L'ex direttore sportivo della Roma, Gianluca Petrachi, è stato intervistato da Radio Radio. Ecco le sue parole:

Ti ha mortificato la situazione Roma?
“Io sono arrivato con molto entusiasmo, ho creduto molto al progetto, per arrivare alla Roma ho avuto una diatriba con il mio ex presidente (Cairo, ndr). Non è stato semplice e non lo è tutt’ora, lui è una persona di potere. L’ambiente Roma si sa che è un ambiente difficile, per 20 anni non si è vinto uno Scudetto, credo che ci siano problemi più grossi. Nella mia testardaggine, nella mia idea di fare calcio, sono riuscito a cambiare Cairo: quando sono arrivato mi ha detto di aver 64 milioni di euro ed era contestato, ho cercato di aiutarlo e lui ha aiutato di me. Nei miei anni di gestione siamo migliorati, abbiamo fatto un positivo di 200 milioni, siamo tornati in Europa League dopo tanti anni e siamo cresciuti. Quando sono arrivati a Roma quindi pensavo di poter avere a fianco persone che avrebbero potuto aiutarmi a fare meglio”.

Alla Roma non ti hanno capito?
“Credo che mi hanno capito bene per 6 mesi, visto che le cose sono state fatte, l’ho scritto anche nella lettera. Tanti possono dire quante persone ho allontanato dalla prima squadra, quanta mentalità professionale ho portato, quante multe abbiamo fatto per un regolarmente interno. Credo che tutto stesse andando bene. Quando ho cercato di porre fine a certe situazioni, notizie trapelate, persone che erano lì e non facevano niente. Ho spiegato loro che se non ci sono le basi solide, se fai una partita e non hai persone presenti in ogni singolo ruolo è evidente che le cose non possono andare bene. Poi si incappa in delle situazione di difficoltà e lì esce fuori il gruppo e l’unione e la forza. Io credo che tutto questo nella Roma non c’era, spesso alcune persone sparlavano a vicenda: io ho fatto tanto per cercare di unire, era importante avere compattezza all’interno del gruppo. Se alcuni elementi destabilizzano l’ambiente e la Società non mi dà modo di allontanare, allora perdiamo. Il calcio funziona così: ci sono regole non scritte che vanno rispettate”.

Quando hai capito di non essere più contento alla Roma?
“Io ho chiesto a un mio referente se il presidente (Pallotta, ndr), fosse contento del mio lavoro. Tutto gli veniva raccontato perché non parlavo bene in inglese e ci ho parlato solo due o tre volte, quindi non sapevo cosa gli venisse riferito. Io sotto Natale dopo la vittoria di Firenze ho mandato un messaggio al presidente e non mi ha mai risposto. In quel momento ho capito che stavano cercando di distruggermi in maniera molto subdola. Ho sperato che il presidente mi chiamasse, allora ho chiesto alcune cose e non mi sono state date. Ho pensato di aspettare la fine del campionato e dire chiaramente che o si sarebbe fatto come dicevo io o sarei andato via”.

Che voto daresti al tuo mercato alla Roma?
“Credo di aver fatto delle cose in linea con quello che la Società mi ha chiesto. Mi hanno chiesto di prendere giovani di prospettiva visto che l’ho sempre fatto in passato e cercare di rendere la squadra un po’ più forte, stando attenti al denaro. Facendo determinate cose d’intelligenza potevo rendere la Roma più forte, non è una cosa che si fa dall’oggi al domani. Il calciomercato non è come al fantacalcio: c’è la plusvalenza, c’è l’operazione furba… Era uscita fuori una buona struttura buona, con ragazzi bravi, avevamo sistemato 15 giocatori, di cui la metà a titolo definitivo, e molti non avevano mercato dopo stagioni non buone. Voglio ribadire che le basi erano state messe. Molti giocatori rifiutano il trasferimento sia in entrata che in uscita: alcuni sono ancora a Roma”.

Su Kalinic?
“L’ho preso in prestito gratuito e l’Atletico pagava l’ingaggio. Non stava benissimo fisicamente, se avesse giocato di più avrebbe potuto fare di più, ma era un prestito. Il problema è quando si paga un giocatore 30 milioni e resta in squadra senza giocare”.

Non credi di aver avuto un impatto comunicativo troppo duro che ti ha creato dei problemi?
“Questo lascia il tempo che trova. Il mio carattere è questo, quando la Roma mi ha scelto sapeva come ero. In un sistema malato come Roma in cui i direttori dei giornali mi chiamano per chiedere le notizie io devo mettere dei paletti per fermare questa emorragia. In tutte le mie esperienze non ho mai avuto rapporti confidenziali con i giornalisti. Nelle conferenze stampa sono sempre stato coerente. Era più facile abbattere Petrachi, tutto il sistema della comunicazione aveva piacere ad abbattere Petrachi. La Società stessa poteva avere la possibilità di aiutarmi ma non l’ha fatto”.

Rimanderesti a Pallotta quel messaggio?
“Non è stato un messaggio sgradevole, ma solo di confronto, il quale non è mai arrivato. So cosa vuol dire il rispetto. Il mio era un messaggio d’aiuto, io stavo lavorando per lui e volevo cambiare un trend che a Roma non funziona. Certo che lo rifarei, la mia sarebbe stata una morte lenta come per tutti quelli che sono passati a Roma. Non è la pressione del tifoso, perché quella è una parte molto bella: spesso non si dice in faccia le cose ai tifosi, e spesso questo ha dato fastidio. La mia colpa potrebbe essere stata quella di aver detto le cose in modo troppo diretto”.

Nel momento in cui puntava un calciatore e rispettava questi parametri, c’era qualcuno che metteva bocca nella trattativa?
“Sono stato libero di poter scegliere, qualcuno ha fatto il nome di Baldini ma lui ha sempre rispettato il mio ruolo. Non conosco le sue conversazioni con Pallotta e non erano di mio interesse. Sul mercato la Roma mi ha sempre lasciato scegliere. Si diventa vincenti formando un gruppo unito. Se per esempio c’era un cambio modulo e volevamo tenere il segreto per sorprendere l’avversario, dovevo stare attento alle persone che venivano a conoscenza della notizia. C’erano i famosi topini come diceva Spalletti. È vero che c’è voglia di sapere le notizie, ma si fa di tutto per tirarli fuori. Non funziona così, non è questa la cosa giusta: se si tolgono le persone che parlano, le cose cambiano. Se entro nel mio spogliatoio con i miei giocatori, e poi all’intervallo del Sassuolo esce la notizia che Petrachi ha redarguito la squadra qualcuno ha parlato, e non sono i giocatori in campo. Se Fonseca mi ha cacciato? Non è così, nessuno poteva farlo”.

Da cosa sono dipesi i tanti infortuni?
“Bisogna vedere lo staff tecnico, chi c’era prima e chi c’è ancora oggi”.

Su Pau Lopez?
“Secondo me è un buon portiere e rispettava tutte le caratteristiche che servivano al mister. Fino al derby credo che tutti fossero contenti, anche Zenga lo ha elogiato. Dopo il derby si è inceppato qualcosa, forse ha subito il colpo psicologico per l’errore, ma questo non gioca a suo favore. Dopo si è rotto il polso, questa è un’altra problematica: chi gioca a calcio sa le dinamiche e non è normale che succeda questo per un portiere. Questo non giustifica i suoi successivi errori. Col Bologna quando abbiamo vinto al 94’ ha fatto una grande parata. Pau Lopez non è stato pagato 30 milioni, ma 18 più la metà del cartellino di Sanabria. Qualcuno mi smentirà, ma sono convinto che se tornerà in sé mentalmente tornerà a grandi livelli. Lo scorso anno dopo i primi mesi ce lo stavano chiedendo anche squadre di Premier. Non penso di aver sbagliato l’acquisto. Lo stesso Mirante ha affermato che Pau Lopez è davvero fortissimo: uno come lui, con la sua esperienza, non dice cose a caso”.

Due nomi: Paulo Fonseca e Antonio Conte
“Su Conte se ne sono dette tante, ma la verità la sappiamo solo io e lui. Non mi va oggi di dire delle cose che non hanno senso. La verità la sappiamo noi, magari uscirà fuori tra qualche anno. Fonseca è un allenatore che ha delle idee innovative, l’ho preso per questo. Il suo gioco è fatto di palla a terra, velocità di pensiero. Il calcio italiano ha delle difficoltà, lui ci si è imbattuto e spero che ne possa fare tesoro. Se poi si resta ancorati a certe credenze e non si ascoltano i consigli questo diventa soggettivo. Se migliora in alcuni aspetti può avere una carriera brillante come sta avendo. Deve perfezionare qualcosa per diventare un top”.

Torneresti alla Roma oggi? Qualcuno ha detto che sei stato un romanista vero e se fossi stato più fino saresti rimasto di più
“Credo che a Pallotta hanno raccontato tante inesattezze. Chi ne ha pagato le conseguenze in primis è stato lui, perché non si è mai fatto amare per come era. Forse avrei potuto giocare di più di fioretto e vedere come andavano gli eventi. La mia istintività, di voler costruire qualcosa di vincere mi ha messo fretta. Un’altra cattiveria è quella che io non ero amato dai giocatori. Loro avevano grande rispetto di me. Mi sono arrivati tanti messaggi quando sono stato allontanato, soprattutto da chi si diceva che mi remasse contro. Ogni tanto ho tirato le orecchie a Zaniolo in senso bonario, ma l’ho sempre aiutato e lui ha sempre portato tantissimo rispetto per me. Ha sempre pagato le multe e mi ha chiesto scusa quando ha sbagliato. Ci vogliono paghe e premi. Hanno alimentato cose assurde. Prima cercavo di allontanare le persone che raccontavano queste frottole, forse ho accelerato troppo queste dinamiche, il voler allontanare la gentaglia che sta lì dentro. Non rinnego l’idea: forse se avessi aspettato qualcosa a livello di tempistiche sarebbe andato diversamente. Era evidente che ero abbandonato da un certo tipo di discorso. Ho cercato un confronto con Pallotta per spiegargli cosa stava accadendo. Tornare alla Roma? Ci si tornerebbe sempre. Quando incontravo Sabatini mi diceva di accettare di corsa la Roma, è una persona di cuore e presi per buono tutto quello che mi disse. La Roma ti rimane, ma se un giorno ci tornerà dovrò avere le forza di fare certe cose che ti aiutano a vincere. Capello ha vinto di tutto e di più, ma a Roma ha avuto la forza di Franco Sensi: se non avessi avuto lui, anche Capello non avrebbe vinto. Senza Società non si vince”.

La Roma sta facendo mercato senza direttore sportivo. Hai un rapporto con la nuova proprietà?
“Ho conosciuto i Friedkin in un pranzo in inverno. Si è parlato del mio modo di lavorare, erano molto interessati ad ascoltare. A febbraio poi avevamo organizzato il lavoro futuro, che oggi io so. A Trigoria c’erano i loro uomini di fiducia, ma poi da lì non li ho mai più sentiti. Io sono in causa con la Roma, mi hanno licenziato per una questione che loro hanno definito una giusta causa, e io nelle sede legali spiegherò che non è così”.

Non dovresti contattare i Friedkin?
“Non sono io che devo farlo, al massimo lo devono fare loro. La Roma ha bisogno di un direttore sportivo, che sia Petrachi o un altro. Io mi sono sempre preso le mie responsabilità, non mi sono mai fatto condizionare dai fattori esterni, ho sempre fatto quello che c’era da fare. Se loro vorranno mi contatteranno, ma magari non capiterà perché a loro non interessa e si faranno raccontare delle cose da chi è dentro Trigoria”.

In un’intervista post-Covid hai detto che la squadra fosse moscia, poi ha fatto tre sconfitte di fila
“Sarebbero state quattro se Dzeko non si fosse inventato quei due gol con la Sampdoria. Eravamo carichissimi al rientro dal lockdown, ma poi dopo 15 giorni ho visto che tutti si stavano spengendo, non si stavano allenando bene, era un grido d’allarme. Io vedo tutti gli allenamenti, non me li faccio raccontare. Ibanez quando è arrivato sembrava fosse in vacanza, poi ho parlato con lui spiegandogli che senza cattiveria e ambizione non sarebbe mai diventato un titolare. Sono stato molto duro con lui, ma mi ha ascoltato e ha dato la svolta. Il brasiliano tende a esserlo, talento ma caratterialmente si distrae e si appaga. Gli sono stato addosso come fatto con tanti altri giocatori. Tutti hanno avuto a che fare con me, ho cercato sempre di dare tanta motivazione”.


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