Tommasi: "Il futuro della Roma passa senz'altro dalla vicenda stadio"
Fonte: luckyjunior.it
Damiano Tommasi si è raccontato in una lunga intervista rilasciata al sito della società Lucky Junior.
Damiano, intanto grazie per l’intervista che ci ha concesso a nome di tutta la squadra. La tua carriera da professionista è iniziata nel Verona, ma provenivi da una piccola squadra di provincia, proprio come potrebbe capitare a tanti ragazzi che giocano nelle serie minori. Puoi raccontarci dei sogni, e delle speranze del Tommasi “ragazzino”?
«Inizio salutando tutti i ragazzi della Asd Lucky Junior, ringraziando Roberto per l’intervista, augurandovi un grande in bocca al lupo per il proseguo del campionato e per il futuro. Tornando alla domanda, all’Hellas Verona sono arrivato a 16 anni, nel 1990, proveniente dall’A.C.S. Zeno di Verona. Questo arrivo “in ritardo” rispetto agli attuali tempi di approdo in un settore giovanile di una squadra professionistica, mi ha permesso di vivere il calcio da bambino senza tante pressioni e senza sentirmi qualcosa di diverso da tanti altri ragazzini che giocano a calcio. L’Hellas Verona, avendo vinto, tra l’altro, lo scudetto nel 1985, era nel cuore di tutti i bambini di Verona e così è stato anche per me. Avere già a casa il materiale sportivo per allenarmi tutti i giorni con la squadra del cuore era per me il massimo, un traguardo importante».
Cosa ricordi delle giovanili col Verona e del debutto in prima squadra?
«Gli anni all’Hellas Verona hanno coinciso con quelli di Ragioneria e quindi le mie giornate le passavo tra scuola, campo e pullman per tornare a casa. La mia ‘cameretta’ dove studiare era proprio l’autobus di linea sul quale passavo, in media, 2h30’ al giorno. Il debutto fu in occasione di Padova-Verona il 6 febbraio 1994. Ero impegnato a Viareggio con la Primavera e raggiunsi la prima squadra a Padova viste le numerose assenze previste. Verso la fine del primo tempo si infortunò Gianluca Pessotto e Mr. Mutti mi fece scaldare. Entrai in campo e giocai tutto il secondo tempo da centrocampista.. ed io che ero arrivato al Verona da difensore e in difesa avevo giocato tutti gli anni del settore giovanile!».
Dopo la promozione del Verona in Serie A, vieni ceduto alla Roma. Ci puoi raccontare come andarono le cose e che impatto hai avuto con la città, la squadra e la tifoseria?
«Cresciuto in un paesino di 300 anime, in un comune di 3000 abitanti, trovarmi all’improvviso nella capitale, da giovane sposo 22 enne, non è stato semplice. E’ stata una sfida, volevo vedere se potevo giocare in serie A certi livelli. I primi due anni sono stati complicati visto che ero sempre fischiato dalla tifoseria e criticato dalla stampa. La fiducia dei compagni, del mister e della società mi hanno però aiutato molto e mi hanno dato la serenità, apparentemente ‘assurda’, con la quale scendevo in campo. La città, da subito, mi è piaciuta moltissimo e posso dire che ancora oggi quando torno a Roma mi sento un po’ a casa».
Nei 10 anni alla Roma sono passati diversi allenatori. Chi è stato, per te, quello più importante per la tua carriera e quello che hai “amato” meno?
«Il più importante e quello che ho più amato è stato sicuramente Zdenek Zeman. Forse in questo mio giudizio incide il fatto che era proprio lui l’allenatore nel periodo delle critiche e dei fischi. La sua fiducia e il suo credo calcistico mi hanno fatto innamorare. L’allenatore con il quale ho avuto meno feeling è forse stato Fabio Capello che, per ironia della sorte, è anche l’allenatore che, da quando gioco a calcio, ho avuto per più anni (ben 5) ma con il quale in campo mi sentivo meno a mio agio. Strano che dica questo visto che è stato il periodo più intenso della mia carriera, quello dello scudetto con la Roma, della Nazionale e delle coppe europee».
Sei stato sempre un giocatore amato per i tuoi comportamenti dentro e fuori dal campo. Eri “l’anima candida” della squadra (cit. Carlo Zampa). Ti rivedi in questo appellativo? La notorietà da calciatore ti ha cambiato o sei riuscito a rimanere sempre lo stesso ragazzo di prima?
«Stesso ‘ragazzo’ no, vista l’età che avanza…Nel mio percorso professionale ho avuto una fortuna che non è da tutti, vivere in famiglia fino dal giorno dell’esordio in serie B, conoscere quella che oggi è mia moglie, quando ancora giocavo nella squadra di quartiere. I legami familiari e affettivi più forti che ho sono quindi ‘esenti’ dall’essere stato calciatore professionista e quindi non risentono della celebrità. Questo fatto mi aiuta a rimanere, soprattutto con loro, quello che ero e spero di essere ancora».
Chi è stato il giocatore più difficile da affrontare della tua carriera e quello che ti ha impressionato di più in campo, sia da avversario che come compagno di squadra?
«Il più difficile sicuramente Zidane visto che spesso e volentieri toccava a me marcarlo…. Nella mia carriera ho avuto la fortuna di giocare con e contro i più grandi giocatori di quel periodo. Un nome che viene citato poco ma che mi ha sempre affascinato da avversario è sicuramente Manuel Rui Costa (Fiorentina e Milan). Per quanto riguarda i miei compagni ne devo citare due… Cafù e Aldair! Esempi dentro e fuori dal campo».
La domanda è d’obbligo… che persona è Francesco Totti dentro e fuori dal campo? Che rapporto avevi con lui negli anni di Roma?
«Totti è il ragazzo di sempre anche adesso che ha 40 anni. Il suo nome e la sua celebrità hanno superato il suo essere ragazzo di Roma, semplice e leggero. Negli anni la sua figura ha assunto contorni molto importanti in termini di responsabilità, anche mediatica e questo forse non l’ha aiutato a sentirsi se stesso quando si rapportava con l’esterno. Nello spogliatoio, invece, riusciva ad essere se stesso e questo lo faceva diventare un compagno di avventura ‘frizzante’ e spensierato».
Nella stagione 2005-06, dopo il tuo grave infortunio del 2004, firmi uno di un anno di contratto con la Roma al minimo sindacale di 1.500 € al mese. Una scelta che ti ha fatto rimanere nel cuore di tutti i tifosi. Personalmente ricordo il tuo gol alla Fiorentina di quella stagione, mi fece scendere le lacrime agli occhi. Puoi spiegarci il motivo di quella scelta e le sensazioni che hai provato ritornando in campo e dopo il gol contro i viola?
«Il contratto mi era scaduto nel mese di giugno. A fine agosto sono stato richiamato dalla Roma, su richiesta di Luciano Spalletti – neo arrivato sulla panchina giallorossa – a discutere un nuovo contratto. I dubbi sulla mia reale tenuta fisica erano emersi da parte della Società durante la trattativa e, di concerto con il mio agente di allora Andrea Pretti, proponemmo il contratto al minimo sindacale perché la mia priorità era provare a tornare un calciatore. La Roma evitava, così, qualsiasi rischio economico nei miei confronti e io potevo aggregarmi alla squadra nell’unico ruolo che mi interessava in quel momento, da calciatore. Il gol contro la Fiorentina, alla prima da titolare e dopo appena un minuto di partita, con mia moglie presenti sugli spalti e Cesare Prandelli (presente il giorno del mio infortunio) sulla panchina della Fiorentina è diventato, ad oggi, il momento più emozionante della mia vita calcistica».
Nel calcio moderno, concentrato sui soldi, ritieni sia possibile ancora un gesto del genere?
«Spero che nessuno sia costretto ad un gesto del genere perché presupporrebbe un grave infortunio alle spalle che non auguro a nessuno. Detto questo nel calcio di oggi ci sono ancora parecchi ragazzi che vivono la professione con la passione e l’amore sufficienti per andare oltre il valore economico dell’ingaggio».
In quell’anno hai avuto Luciano Spalletti come allenatore? Ci puoi raccontare che allenatore e persona hai trovato?
«Spalletti, come detto, mi ha cercato e voluto nello spogliatoio. Era alla sua prima esperienza con una squadra importante come la Roma e devo dire che si è calato perfettamente e sin da subito nella situazione. I risultati nel corso degli anni lo hanno gratificato e credo che l’incertezza societaria di quegli anni abbia agevolato il suo istinto manageriale che ha potuto, poi, mettere in campo con maggior libertà e responsabilità».
Cosa pensi della Roma americana? Dove può arrivare questa squadra?
«La Roma ormai è una ‘certezza’ competitiva e lo dimostrano i risultati degli ultimi anni superati solo da una Juventus straordinaria. Il futuro di questa squadra e di questa società passa senz’altro dalla vicenda stadio ma da un punto di vista sportivo mi sembra che siano sulla buona strada».
Dopo la Roma hai giocato in Spagna (Levante), Inghilterra (Queens Park Rangers) ed in Cina (Tianjin Teda). Cosa ti hanno portato queste esperienze e che differenze hai trovato, rispetto all’Italia, nei vari campionati.
«Girare il mondo mi ha aiutato sia a conoscere altre culture e modi di vivere il calcio, sia a vedere l’Italia con un po’ di distacco. Credo che farebbe bene a tutti uscire qualche anno per poi rivivere il nostro Paese con un po’ più di cognizione dei nostri difetti e dei nostri pregi. La Spagna è il Paese con la qualità di vita migliore che ho avuto modo di conoscere, l’Inghilterra il Paese dove professionalmente si può dare il meglio e la Cina il Paese dove si respira futuro ottimista in tutti gli angoli. Manco dalla Cina dal 2011 ma credo che dal 2009, anno in cui ho giocato nel Tianjin Teda, parecchie cose nel calcio siano cambiate ma sia rimasta questa rosea aspettativa di un futuro certamente meglio del presente».
Dopo la parentesi cinese ti sei gettato in seconda categoria nel Sant’Anna d’Alfaedo, dove giochi ancora attualmente. Come è nata l’idea?
«Nessuna idea particolare avevo solo voglia di continuare a divertirmi con un giocattolo magico che supera tutte le barriere, di categoria e di età. S.Anna d’Alfaedo è il mio paese natale e non avevo mai militato in prima squadra, visto che ero partito giovane per altre vie. Ora è diventata la mia seconda squadra, in termini di permanenza, essendo all’ottava stagione».
Cosa pensi bisognerebbe fare per migliorare in queste categorie?
«In queste categorie troppo spesso si scimmiotta il professionismo con tutti i suoi difetti, esasperazione ed esoneri, calciomercato e polemiche arbitrali. Purtroppo le norme non aiutano visto che attraverso il vincolo sportivo fino a 25 anni le società dilettantistiche si propongono come vere e proprie società ‘professionistiche’, improvvisando una sorta di calciomercato a discapito del dilettantismo puro».
La tua maggiore difficoltà nel giocare in queste categorie? Gli avversari ti portavano “rispetto” visti i tuoi trascorsi?
«Nessuna difficoltà se non l’età che avanza che mi avvantaggia anche in termini di rispetto da parte dell’avversario».
Che consigli puoi dare ai tanti ragazzi che giocano nei dilettanti, a chi gioca a calcio solo per passione?
«Di divertirsi e pensare sempre che il pallone è un giocattolo “magico” e che la squadra è una grandissima palestra di convivenza. A tutti i livelli lo sport, soprattutto quello di squadra, è un’occasione importantissima per crescere come persona, che si muove all’interno di un contesto sociale variegato e stimolante, dove l’altro è e deve essere una risorsa e mai un pericolo».
Puoi raccontarci il tuo giorno di gara, se hai un tuo rito particolare per il pre-partita?
«Di solito il giorno della gara arrivo in ritardo visto che la domenica a pranzo cerco di stare il più a lungo possibile con la famiglia. Non ho mai avuto nessun rito particolare se non la serenità di andare a divertirmi per un paio d’ore….con un occhio alla classifica ovviamente!».
Nelle tante stagioni che hai affrontato puoi raccontarci, invece, qualche abitudine particolare di un tuo compagno di squadra?
«La più strana era senz’altro l’abitudine di Hidetoshi Nakata che nello spogliatoio nel pre-partita si intratteneva a leggere il suo fumetto preferito fino al momento di uscire per il riscaldamento…..ognuno, in fondo, ha il suo modo di concentrarsi!».
Ti è mai capitato un avversario che ti si è segnato a “penna rossa” per la gara di ritorno o queste cose nel calcio professionistico non succedono?
«Succedono, succedono… ma di solito qualsiasi provocazione o torto subito erano (e lo sono ancora!) lo stimolo per rispondere con un gol o una vittoria, è il modo migliore per non dimenticare!».
In Serie A capita che qualche giocatore usi modi “intimidatori” per mettere paura agli avversari?
«Certo. In tutte le categorie e in tutti gli ambiti lavorativi c’è chi si difende attaccando con qualunque mezzo e spesso sono i più fragili ad usare i modi più violenti e provocatori».
C’è qualche calciatore in cui ti rivedi?
«Sinceramente no, anche se in Radja Nainggolan rivedo la mia voglia di essere da tutte le parti del campo!».
Come è cambiato il mondo del calcio da quando eri calciatore ad adesso?
«Non molto dal punto di vista tecnico. Il livello del campionato italiano non è ai livelli degli anni ‘90 ma è comunque molto competitivo e tattico. Da un punto di vista di ‘tradizioni’ senz’altro è cambiato molto nella composizione delle squadre con tanti (troppi) cambi di giocatori ed allenatori da una stagione all’altra. Questa variabilità delle rose delle squadre incide anche sulla creazione e impostazione di rapporti di amicizia duraturi».
Dal 9 maggio 2011 sei al timone dell’Associazione Italiana Calciatori, succedendo a Sergio Campana. Come è nata l’idea di avventurarti in questo ruolo. Se non erro anche alla Roma eri il “portavoce” della squadra, da li in poi quale è stato il tuo percorso professionale che ti ha portato poi a questo ruolo così importante?
«Dal 1999 faccio parte del Consiglio direttivo dell’AIC e per questo è un ambito che ho sempre respirato. Tornato dalla Cina nel 2009 e non avendo idea di cosa fare nel dopo carriera mi sono affacciato alla collaborazione diretta con l’Associazione. In quegli anni era sorta un’altra Associazione Calciatori che esigeva qualcosa di ‘diverso’ rispetto alla tradizione ultra quarantennale del Sindacato. La mia candidatura e la mia elezione, a seguito delle dimissioni di Sergio Campana, ha aiutato tutto il movimento a ritrovarsi e ricompattarsi per ripartire con un’unica voce in campo. Questo ruolo mi permette di avere i fine settimana liberi per continuare a giocare e mi consente, nonostante i numerosi viaggi, una vita familiare più stabile a Verona».
Quali sono le maggiori tematiche a livello di tutela dei tuoi assistiti devi affrontare in questo momento storico del calcio?
«La sostenibilità economica delle società professionistiche e apicali del mondo dilettantistico sono le situazioni che mettono più a rischio i calciatori. Purtroppo spesso e volentieri le difficoltà economiche delle società si accompagnano a fenomeni di violenza, intimidazione e minacce nei confronti degli atleti e, in alcuni casi, anche a problemi legati alle scommesse collegate ad illeciti sportivi non controllabili. Diciamo che la parola ‘calciatore’ evoca successi, celebrità, serenità e agio economico ma la realtà è molto diversa per gran parte dei nostri associati».
Nella Lega Pro e nei Dilettanti succede troppo spesso che i giocatori non vengano pagati. Come state affrontando la questione? Cosa pensi si debba fare per migliorare la situazione?
«Come detto è un tema delicato che genera altre problematiche e per questo siamo consapevoli che vada affrontato con forza e convinzione. Prossimamente ci saranno le elezioni federali e sicuramente il quadriennio che abbiamo davanti dovrà servire per stabilizzare finanziariamente il sistema e non permettere a pseudo imprenditori di appropriarsi della passione della gente mettendo i lavoratori nelle condizioni peggiori di lavoro. Norme certe di accesso al professionismo e soprattutto controlli frequenti per avere sempre la situazione sotto controllo».
Come Lucky Junior, nel nostro piccolo, cerchiamo di impegnarci nel sociale e nell’integrazione e di vivere il calcio con rispetto e lealtà, di viverlo in modo “sano”. Cosa sta facendo la tua associazione e la Lega Calcio per migliorare tali aspetti?
«Nel nostro interno abbiamo istituito il Dipartimento Junior con il quale accompagniamo le società del territorio che credono nel calcio come momento educativo. Lavorare con i bambini attraverso l’esperienza di chi il calcio l’ha vissuto come professione».
Cosa pensi si dovrebbe fare di più per riavvicinare le famiglie e le nuove generazioni allo stadio ed al calcio in generale?
«Riportarlo ad essere uno sport, un momento di socializzazione e un’attività fisica. Purtroppo nelle famiglie spesso si insinua la tentazione di vedere lo sport, ed il calcio in particolare, come l’occasione per tentare la carriera e questo diventa un boomerang nei confronti dei bambini e delle famiglie».
Una domanda di attualità. A breve ci saranno le elezioni per decidere chi guiderà la Lega Calcio. Cosa pensi si debba fare per arrivare agli standard di campionati come quello Inglese e tedesco?
«Credo che alla Lega Calcio manchi una visione d’insieme. I presidenti dovrebbero fare tutti un passo indietro per farne dieci in avanti, come sono riusciti a fare in altre Leghe. Delegare un pezzetto di potere a dirigenti capaci e visionari sarebbe senz’altro il miglior impulso per tutto il sistema».