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Bologna, Fenucci: "Via da Roma perché alcuni consulenti di Pallotta non avevano reali competenze sportive"

di Marco Rossi Mercanti

Claudio Fenucci, ex dirigente della Roma oggi all'interno del Bologna, ha rilasciato una lunga intervista ai microfoni de Il Messaggero. Eccone uno stralcio:

Bologna è tutto un altro ambiente rispetto al fuoco di Roma.
«Non creda. Certo, la dimensione è diversa, ma anche qui la tifoseria bolle. Nei periodi di contestazione - e ce ne sono stati - si fanno sentire, ci sono un paio di radio molto attente. A Roma ho imparato a gestire le parole, ho studiato il linguaggio del calcio, come fanno i politici nel loro mondo».

Ah, quindi Bologna come Roma. Il famelico ambiente romano che porta via tutto, sogni e vittorie. 
«Chiariamo subito. Non che non si vinca per colpa delle radio, i successi sono figli di altro: di una buona gestione amministrativa, di scelte tecniche corrette e di un investitore pronto a coprire le perdite».

È difficile colmare il gap?
«All'epoca dei Sensi, la forbice con le big era meno ampia, era più facile inserirsi nel giro scudetto, lo fecero sia la Roma sia la Lazio. Negli ultimi tempi si è allargata e molte società sono soggette alla tirannia del fatturato. Se non aumenti i ricavi, è difficile competere. Ma non bisogna sempre appoggiarsi a questo, a volte serve qualche idea in più. In Italia c'è una netta connessione tra fatturato e vittoria, altrove gli incassi sono più equi. Le faccio un esempio: oggi i soldi distribuiti dalle varie competizioni europee si aggirano intorno ai dodici miliardi, ma più della metà sono finiti a soli quindici club».

La sensazione che lei sia un po' scappato dalla Roma, ancora ce l'abbiamo.
«Avevo capito che era il momento di andare via».

Motivo?
«Diciamo che c'erano rapporti problematici con alcuni consulenti di Pallotta (Pannes, ndi). Non avevano, secondo me, reali competenze sportive».

I suoi rapporti con Pallotta? 
«Per un po' ho sbagliato a non crearne uno diretto con lui, era sempre molto filtrato. Magari sarei riuscito a fargli capire certe dinamiche italiane, l'importanza di alcune situazioni ambientali».

Pure lui, però, si fa vedere poco. Saputo è più presente.
«Viene a Bologna più o meno una volta al mese. Ma non è questo il punto. Un presidente non deve stare sul posto per le riunioni o perché deve rimproverare la squadra oppure cacciare un allenatore. Deve frequentare l'ambiente per capirlo, per conoscerlo da vicino, per comprenderne le dinamiche. Insomma, per acquisire una sensibilità sulla nostra cultura dello sport, che è diversa da quella americana. Jim vorrebbe fare tanto di più per la Roma, ha grandi ambizioni, ma non vivendoci dà modo ai tifosi di non farsi capire bene. Gli avrei spiegato che per arrivare al traguardo ci voleva tempo. Che il lavoro sarebbe stato complesso, che tutto sarebbe dovuto arrivare gradualmente. Anche attraverso una comunicazione dello stare con i piedi per terra».

Baldissoni?
«Uomo intelligente, che può fare il dirigente. È un innamorato della Roma».

Poi c'è Fienga, che pronti via ha dovuto annunciare lui l'addio a De Rossi.
«All'epoca mi stava per capitare la stessa cosa. Daniele era a scadenza, poi rinnovò».

Lo avrebbe preso a Bologna, De Rossi?
«Gli ho consigliato di non restare in Italia».

E Totti?
«Non è facile crearsi una figura diversa da quella del calciatore, dal giorno alla notte. Di Vaio, amico di Francesco, da noi ha smesso, ha studiato, ora può fare il direttore sportivo».

La vicenda Mjhajlovic vi ha prima distrutto, poi vi ha dato una grande forza.
«Sinisa è un uomo eccezionale, abbiamo investito su di lui e guai a chi lo tocca. La malattia ci ha dato una bella botta, ma non abbiamo mai pensato che ci avrebbe mollato per curarsi. Lui è in ospedale, ma è sempre presente. Telefono, video, chiama si informa, è in contatto continuo con i suoi collaboratori e con noi. Siamo nelle sua mani, lo aspettiamo. Intanto è nato il Bologna United. E la nostra filosofia è we are one».

 


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